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Caso Facebook-Trump, la democrazia è un'altra cosa - Intervento di Guido Scorza - MilanoFinanza

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Caso Facebook-Trump, la democrazia è un'altra cosa

Donald Trump probabilmente, resterà fuori da Facebook per altri sei mesi ma Facebook non avrebbe dovuto sbatterlo fuori per sempre dopo i suoi post sui riottosi di Capitol Hill. È la sintesi della lunga, articolata e molto attesa decisione appena assunta dal Facebook Oversight Board, il Comitato di esperti che Facebook ha istituito per supportarla nell'identificazione di standard adeguati nella gestione dei contenuti degli utenti attraverso la revisione di alcune proprie decisioni.

Diciamolo subito e diciamolo chiaro: è una brutta decisione di una brutta questione. L'importanza del caso, la rilevanza degli interessi in gioco, il suo rilievo intemazionale avrebbero meritato certamente più coraggio, più rigore nel ragionamento giuridico, indicazioni più chiare sul futuro peraltro come sin qui accaduto nelle precedente decisioni del board. Poi, per carità, non si tratta di una Sentenza di una Corte Suprema ma della posizione di un comitato di esperti che una società privata ha costituito per darle una mano a far meglio il proprio lavoro e, quindi, la severità del giudizio può anche essere attenuata. Ma, oggettivamente, la decisione sembra un po' pilatesca e cerchio-bottista.

Da una parte il board dice che i post di Trump che sono costati all'ex Presidente americano l'ostracismo perpetuo da Facebook in effetti violavano le regole, tutte contrattuali, imposte da Facebook ai propri utenti ma dall'altro segnala che la sanzione irrogata non era - e non è - prevista da nessuna parte e che, quindi, Facebook non avrebbe dovuto adottarla. Poi, però, anziché bocciare la decisione del social network, bollandola come semplicemente incompatibile e illegittima sulla base delle regole che la stessa società si è data, accorda a Facebook un periodo di grazia di sei mesi per rivedere una decisione ormai assunta cinque mesi fa e mettere le cose a posto. Insomma una decisione che rassomiglia più a una non decisione, una decisione inutile, comunque.

Il vero nodo della questione resta irrisolto: è davvero legittimo che una società privata divenuta responsabile - come scrive lo stesso Oversight Board - di uno strumento indispensabile per il confronto politico condanni all'ostracismo digitale perpetuo il Presidente in carica di uno Stato sovrano e democratico? E, naturalmente, la questione avrebbe dovuto e dovrebbe - posto che non lo è stato - essere risolta prescindendo da ogni valutazione di merito su Trump e sul suo utilizzo spregiudicato dei social network. E una questione di metodo. La risposta a questa domanda nella decisione del board, purtroppo, non c'è: il board ondeggia tra un «non ci si può dire sicuri dell'opportunità di riconoscere uno status particolare agli utenti politici perché forse - sempre forse - tutti gli influencer vanno trattati allo stesso modo» e un «certo le parole pronunciate da un Capo di Stato meriterebbero particolare rispetto in termini di libertà di manifestazione del pensiero e bisognerebbe pensarci una volta in più prima di cancellarle». E quindi? Domani Facebook - e naturalmente gli altri social network ormai una sorta di essential facility democratica - potrà condannare all'esilio digitale un Premier in carica, un Ministro, un Sindaco semplicemente decidendo in assoluta autonomia che ha passato il segno, che le sue parole sono suscettibili di incendiare le folle e riscaldare gli animi oltre la soglia, secondo lui, di sopportazione? E così facendo potrà sottrarre lei o lui dall'agone politico o da una parte importante di questo per giorni, settimane, mesi e anni senza che nessuno possa dar nulla per ottenere una revisione della decisione? Perché, nel caso di Trump, alla fine è così che è andata. Facebook ha deciso, l'Oversight board ha detto che l'ostracismo perpetuo è stato illegittimo ma non ha ordinato a Facebook di riammettere l'ex Presidente nel social network. Si vedrà nei prossimi sei mesi.

E frattanto Trump che non è un ex Presidente qualsiasi ma uno degli uomini più ricchi e influenti del Paese ha deciso di lanciare il suo «non-social network», la sua piattaforma attraverso la quale far comunque arrivare la sua voce dove gli interessa che arrivi, persino rimbalzando, grazie alla condivisione degli utenti su Facebook, Twitter e gli altri social network. Ma se a essere condannato all'ostracismo digitale fosse stato un politico, titolare di una carica pubblica, democraticamente eletto ma «persona normale», privo delle risorse per provare a far da solo? Davvero le nostre democrazie possono sopravvivere a dinamiche di questo genere nelle quali la voce è data e tolta da un soggetto tutto privato solo perché il soggetto m questione è il proprietario di un ex giardino privato oggi diventato parte integrante dell'infrastruttura globale di comunicazione? Perché non mettere nero su bianco in una legge che della rimozione di un contenuto online e dell'esilio digitale deve decidere solo ed esclusivamente un giudice o un'Autorità? È così che dovrebbe funzionare in democrazia. E se il problema è che i giudici e le Autorità non hanno abbastanza risorse, si preveda nella stessa legge che il costo di questo strumento di sostenibilità democratica del nuovo ecosistema dell'informazione globale venga sostenuto pro-quota dai soggetti che lo animano e che legittimamente ne traggono profitto.