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Convegno "Il Metaverso tra utopie e distopie" - Intervento di Ginevra Cerrina Feroni, Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali

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Convegno "Il Metaverso tra utopie e distopie"
Intervento di Ginevra Cerrina Feroni, Vice Presidente del Garante per la protezione dei dati personali

Filosofie del Metaverso tra problemi metafisici, epistemologici ed etici

Elaborare delle conclusioni di un convegno come questo è impresa difficile, sia per la ricchezza del tema sia per come questo stesso tema è stato trattato dai relatori. Proverò solo a raccogliere gli spunti emersi da queste ricchissime relazioni lavorando su tre grandi traiettorie.

La prima riguarda la natura delle realtà immersive in quanto tali, cioè la loro essenza; la seconda traettoria si concentra sulle prospettive di queste realtà, anche rispetto alle implicazioni per la privacy e per l’identità personale dei partecipanti; la terza riguarda le sfide che provengono dalla governance privata. Lascerò poi alle conclusioni (delle conclusioni) le riflessioni sul “perché”, ovvero sulle ragioni cioè che spingono le persone o le intere società a entrare nel metaverso.

Come è stato ricordato il termine “Metaverso” ha origini nobili, letterarie ed è utilizzato per descrivere uno spazio virtuale collettivo condiviso, creato dalla convergenza di una realtà virtuale immersiva e di una realtà fisica migliorata virtualmente. È scelta lessicale felice, icastica nella misura in cui la preposizione greca «dopo», «oltre», «al di là», si inserisce perfettamente nell’ottica di promuovere l’idea di un mondo parallelo, cioè una metafisica del reale. Metaverso, al momento che il termine è assurto alla ribalta in riferimento ad una specifica operazione commerciale, quella di Meta appunto, si considera oggi anche una sorta di metonimia delle realtà immersiva in generale. Ma piuttosto che di Metaverso dovremmo parlare di “metaversi” o semplicemente di realtà immersive con alcune caratteristiche peculiari che si esamineranno a breve.

Il Metaverso è, nella visione dello stesso fondatore di Meta, “Internet incarnato”, dove i contenuti, invece di essere visualizzati, possono essere vissuti.

L’ipotesi della realtà come simulazione è antica: l’idea secondo cui il nostro mondo e tutto ciò che contiene sono illusioni è stata ampiamente trattata dalla letteratura – per Calderon de la Barca la vita è sogno (e alcuni momenti della nostra vita sono sogno di un sogno) - mentre per altri il mondo fa già parte di una simulazione gestito da una qualche entità superiore: per gl’Indù viviamo nel sogno di un Dio. C’è poi chi ha avanzato un affascinante parallelismo con il Mito della Caverna di Platone, per sottolineare le potenzialità illusorie che le nuove tecnologie posseggono nel rapporto con sé e con il mondo.

La possibilità di creare volontariamente e accedere a “realtà virtuali”, a mondi illusori in cui l’operatore-osservatore diventa attore, vivendoli come se fossero reali, è un’ipotesi che la filosofia della scienza ha iniziato a indagare più sistematicamente solo all’inizio degli anni ’90.
Numerosi Autori ne hanno colto la sfida profonda sul senso della realtà e sul rapporto tra la realtà e le sue rappresentazioni. Con “Reale e Virtuale”, ad esempio, Tomas Maldonado era entrato nel vivo di una delle tematiche più affascinanti, ma anche più controverse, del panorama culturale contemporaneo: quello delle tecnologie avanzate e delle loro implicazioni sulla vita e sulla cultura del nostro tempo.

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Forse il punto di vista migliore per capire ciò che sta avvenendo è costituito da quelli che sono presentati come gli elementi fondamentali del Metaverso, ciò che lo deve «costruire»: la realtà virtuale – o ancora meglio “immateriale” come la chiama Luciano Violante nella sua suggestiva relazione – che permette di esplorare nuovi mondi ed esperienze condivise; la realtà aumentata, che permette di migliorare le esperienze condivise con effetti virtuali; infine, la tecnologia indossabile, che diventerà il vero e proprio portale di accesso nel Metaverso, permettendo di interagire con il mondo attorno a sé.

Se dovessi pensare ad un titolo che rappresenti con semplicità l’enorme potenza del digitale forse sceglierei quello di un libro di Cosimo Accoto, “Il mondo in sintesi”. In esso ben si esprime la capacità di ri-creare il mondo sinteticamente, appunto, come si fa con gli aromi che sembrano dare lo stesso sapore o trasferire lo stesso odore ma ne sono una riproduzione chimica. «Chiari e continui sono oramai i segni che annunciano l’era della simulazione», avverte Accoto che elenca: volti artificiali e carni coltivate, gemelli digitali e monete virtuali, creature biosintetiche e metaversi saturanti fino ad arrivare alle macchine quantistiche e agli impianti neuroproteisici. «La simulazione è una nuova terraformazione», conclude descrivendo i lavori in corso nel cantiere globale di un nuovo mondo possibile. Praticamente viene a valere per il mondo intero quanto Slavoj Žižek aveva sostenuto per la robotizzazione in “The Matrix”: una simulazione della vita umana che ora non è solo dei corpi, ma anche di ciò che li circonda e dell’ambiente che vivono.

Questo nuovo contesto ci richiede insieme pragmatismo e visione, cioè la capacità di contemperare quel che è utile (la governance, la compliance, il profitto, ecc.) con quel che ha un senso esistenziale e immateriale. Ma le risposte sul senso e la ragione delle cose possono arrivare solo da una nuova filosofia del mondo, che è un mondo sintetico. Non è un caso che già verso la fine degli anni ’80 IBM assumesse anche laureati in filosofia, in quanto logica ed etica sono alla base delle implicazioni dell’informatica e delle sue più avveniristiche applicazioni. Una cosa è sicura: la comprensione della linea di sviluppo dello spazio, fisico o digitale, che ci circonda non è possibile attraverso gli schemi tradizionali; la realtà immateriale cambia completamente prospettiva di esistenza poiché incide sul cervello (sui neuroni specchio, sui neuroni GPS, sulle reti di autoattenzione e sulle oscillazioni neuronali interbrain), come bene ricordano Giuseppe Riva nel suo intervento e Maura Gancitano nel suo libro “I nuovi Dei”).

La comprensione della linea di sviluppo dello spazio, fisico o digitale, che ci circonda, però, non è possibile attraverso gli schemi tradizionali.

«Se abbiamo smesso di capire il mondo, allora, è proprio perché il mondo si è rifatto, direi, ontologicamente», scrive sempre Accoto, per significare che di fronte alla carne sintetica, alle immagini create dagli algoritmi, al Metaverso, alle sperimentazioni genetiche, alle imprese della space economy è quindi naturale domandarsi: che cos’è carne, che cos’è volto, che cosa è spazio, che cosa è vita, che cosa è mondo?

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Nel Metaverso ci sarà protezione dei dati personali, non privacy.

Ecco credo che il metaverso abbia come suo primo effetto quello di incidere sui linguaggi. Una sorta di palingenesi semantica, perché se pare di per sé complicato parlare di protezione dati nel metaverso, pare più che un ossimoro sostenere il concetto di privacy nella meta-realtà.
Ovviamente la prospettiva utopistica – e un po’ distopica – a cui pensiamo riguarda l’integrale sostituzione del nostro mondo con un mondo nuovo. Questa sostituzione, come ha rilevato anche Agostino Ghiglia, non avverrà immediatamente.

Per poter accedere a questo Metaverso bisognerà, intuibilmente, rinunciare a quello specifico hardware che oggi ne permette il concreto accesso: cioè il corpo fisico.

Teorie scientifiche rilanciate per il grande pubblico anche da suggestive docuserie (penso all’episodio “Terra” in Mondi Alieni su Netflix), hanno già previsto il superamento della nostra fisicità: le nostre esistenze (praticamente immortali) potrebbero evolversi fino al punto da non avere più bisogno di un corpo per esistere se non in forma di mero tessuto neurale. Il nostro corpo fisico si limiterebbe a materia celebrale protetta e nutrita in celle di contenimento da sistemi di intelligenza artificiale. Le singole menti farebbero parte di un’unica intelligenza collettiva e tutta la nostra vita, le nostre sensazioni potrebbero essere vissute in una realtà integralmente digitale e altamente interconnessa. Una prospettiva molto forte.

A quel punto ci dovremmo chiedere quale sia la vera realtà, se quella fisica (ma vegetale) o quella simulata (ma intellettualmente vitale). Ma per far ciò è innanzitutto necessaria una piena interazione tra stimoli fisici e vita digitale, in modo tale che il cervello – come avviene nel test di Turing per le IA - non possa più distinguere se siamo di fronte ad una simulazione o ad una realtà. 

D’altronde, per quanto fantascientifico possa sembrare, trovare un modo per esistere in un mondo di dati significa, in fondo, anche aumentare le possibilità di vita degli individui, e non solo: può forse eliminarsi la fame, possono eliminarsi le disparità sociali ed economiche, può veramente pensarsi ad uno Stato i cui princìpi morali siano regolati in modo migliore.

Ma senza spingersi così in là nel tempo, bisognerà pensare almeno alla transizione: inseriti per la maggior parte in un mondo nuovo, traslocate le attività del mondo attuale in quel mondo, come queste attività dovranno essere regolate. Sono da costruirsi nuovi diritti (e doveri) solo per i Metaversi? Chi creerà le regole? Chi dovrà farle rispettare? Ragionando per iperbole, sono ipotizzabili Autorità di protezione dei dati personali nel Metaverso?

Da questo punto di vista i rischi delle realtà digitali immersive sono reali: si tratta ad esempio della soppressione o diminuzione della capacità di autodeterminazione degli individui, a vantaggio della formattazione su un unico standard dominante per la costruzione di ulteriori mercati. La prevalenza della realtà virtuale potrebbe facilmente condurre ad un nuovo assalto silente alla vulnerabilità umana esposta alla modulazione comportamentale degli utenti/consumatori, aprendo a diverse questioni di giustizia sociale, di mercificazione dei dati personali e pratiche predatorie su quanto di più prezioso abbiamo come esseri umani: pensieri, emozioni, coscienza.

Già oggi, a fronte di Metaversi “limitati”, rimane fondamentale garantire l’utilizzo delle più aggiornate misure di sicurezza e di una metodologia certa nell’ambito della gestione dei data breach, considerato altresì che la realtà virtuale immersiva potrebbe generare nuove fonti di illeciti, così come indispensabile diviene la separazione di una dimensione pubblica da quella privata, senza che ciò significhi anonimia.

Ecco, io credo che su questo tema enorme non sia pensabile lasciare che il mercato prenda il sopravvento. Per questo, la protezione dei dati personali non è più un problema “esterno” al Metaverso, una semplice normativa – una delle tante – a cui adeguarsi, né basta una semplice “pennellata” qua e là in funzione di compliance, tanto per dire che si ha rispetto delle Autorità di controllo. La tutela dei dati personali invece, specie nel contesto di un’evoluzione radicale come quella di cui stiamo parlando, deve essere centrale nello sviluppo informatico e deve accompagnare l’architettura dei Metaversi fin dalle prime fasi di ideazione, progettazione e programmazione. Tale architettura va plasmata anche sulla base della minimizzazione dei dati personali trattati e non invece modificata ex post per ricalibrare un progetto quel tanto che basta per soddisfare le prescrizioni normative in tema privacy ad oggi esistenti.

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Ciò detto, non bisogna comunque trascurare quelle che sono le problematicità che la realtà digitale porta con sé.

La vera questione problematica da affrontare riguarderà il rapporto tra contenuto e supporto, cioè tra il bene comune che rappresenterà il mondo digitale e la proprietà privata che rappresenterà il supporto sul quale questa realtà si innesta. Si ritornerà, forse, ad una sorta di forma di Stato patrimoniale di stampo feudale in cui i proprietari sovrintendono e regolano la nostra interazione stabilendo le regole e la loro applicazione? Un ordinamento patrimoniale-pubblicistico dove c’è totale coincidenza tra la persona del Signore (la grande big tech) e la proprietà privata della terra (lo spazio digitale dove si costruisce il Metaverso)?

In effetti si riscontrano analogie tra la natura contrattuale disuguale che assumeva il rapporto tra il feudatario e la comunità contadina e il rapporto tra piattaforma e utente.

Ad oggi i Metaversi continuano nella direzione di ridurre lo spazio pubblico a beneficio del privato ancorché quest’ultimo è chiamato a pubblicizzarsi. Sono convinta però che l’esperimento del Metaverso funzionale (e non solo di quello ludico), se non si rivelerà un fuoco di paglia, richiederà nel tempo una statalizzazione o, quantomeno, una incisiva democratizzazione, come ha adombrato anche Guido Scorza nel suo intervento, sottolineando la necessità di un suo sviluppo “sostenibile” in termini democratici.

In un siffatto scenario il problema che si pone non è più come avere accesso ai dati personali degli abitatori di questa realtà, ma solo di come gestire il loro trattamento. Già oggi i loro proprietari acquisiscono immense tipologie di dati personali: si estrapolano movimenti, emozioni, stati psicologici, reazioni ed ogni tipo di dato biometrico. Un Metaverso universale, dove si conduce parte delle normali attività quotidiane, conferisce una enorme chance di manipolazione delle nostre interazioni sociali, supportata dal continuo monitoraggio delle nostre abitudini di consumo, delle nostre opinioni e dei nostri gusti, con la possibile conseguenza che i comportamenti umani diventino ben presto merce e che si violi l’integrità dell’identità personale.

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Ed eccomi alle conclusioni, o meglio, ad un tentativo di conclusione parziale e non definitivo.
L’ultima riflessione che pongo a me stessa è: perché traslocare sui Metaversi invece di osservare gli altrove che compongono il nostro mondo?

Abbiamo già detto delle opportunità di vita potenziata, e dell’aumentata possibilità di interconnessione, così come della immensa possibilità di archiviazione del nostro “io”, di quell’identità che scegliamo di condividere. Sul punto sarà interessante la rappresentazione che daremo di noi nel metaverso. Già queste sarebbero buone e sufficienti ragioni per spiegare il “perché” della realtà immersiva digitale.

C’è, però, un altro “perché” del Metaverso, molto più seducente: la possibilità di una vita pianificata.

L’ordine terreno, è costituito dalle «cose del mondo» di cui parla Hannah Arendt e alle quali spetta il compito di stabilizzare la vita umana offrendole un appiglio.

Già oggi, e tanto più lo sarà con l’implementazione del Metaverso, all’ordine terreno, subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale de-realizza il mondo, informatizzandolo. La nuova realtà del metaverso sarà quindi composta non da “cose”, ma da “non-cose” e questo altererà profondamente i fatti, cioè la realtà per come la percepiamo. Già alcuni decenni fa, il teorico dei media Vilém Flusser osservava: «Le non-cose stanno penetrando nel nostro ambiente da tutte le direzioni, e scacciano le cose. Queste non-cose si chiamano informazioni» o dati.

Byung-Chul Han scrive in proposito che «con la digitalizzazione abbandoniamo l’ordine terreno. Oggi non abitiamo più il cielo e la terra, bensì il Cloud e Google Earth. Ad oggi è proprio l’esperienza della presenza a darci il mondo mentre la digitalizzazione conduce a una povertà di presenza e quindi di mondo, fino ad arrivare a non percepirlo più se non le sue informazioni, i suoi dati. La digitalizzazione ci sottrae l’esperienza della presenza».

Ma allora se percepiamo il mondo solo limitatamente ai dati gli togliamo il presupposto stesso per vivere la realtà: le cose. Le cose sono punti fermi dell’esistenza.

Cosa dire invece dei dati? Possono anch’essi valere come punti fermi dell’esistenza? Ho qualche perplessità, anche solo perché essi hanno una validità molto limitata, mutano continuamente.

Lo tsunami delle informazioni che evocava Bauman, e che si è fatto credibile nel Metaverso, getta nell’inquietudine persino il sistema cognitivo. In questo senso il metaverso non è un costrutto stabile: manca ad esso, definitivamente, la salvezza dell’essere. Per dirla col filosofo Coreano-tedesco, è una “non-cosa”.

Uno dei vantaggi - ma anche dei rischi - psicologici dei Metaversi sta pertanto nella programmazione, nel poter, in una certa misura, programmare le proprie esperienze e nel sapere che le tue esperienze sono programmate. Se la propria immaginazione si scopre impoverita, si può utilizzare la libreria di suggerimenti estratti da biografie e arricchiti da romanzieri e psicologi. Ed allora, proprio come la letteratura, i luoghi virtuali, in fondo, placano l’ansia del confronto, precorrendolo, facendoci programmati e così, forse, finalmente, reali.

Ecco - e qui ammetto tutta la mia limitatezza - personalmente non sono in grado di dire, e ancor prima di capire, se questa prospettiva mi piaccia.
Grazie a tutti.