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Quella linea di confine tra pubblico e privato da recuperare per evitare inutili tragedie - Intervento di Guido Scorza

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Quella linea di confine tra pubblico e privato da recuperare per evitare inutili tragedie
Chi l’ha detto che la veridicità di un commento di un avventore di una pizzeria di provincia pubblicato su un servizio di recensioni destinato al massimo a orientare la scelta di qualche centinaio di persone ogni anno e la risposta della ristoratrice debbano diventare un fatto di cronaca nazionale e finire addirittura nel dibattito politico?
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 22 gennaio 2024)

“La stampa sta superando in tutte le direzioni i limiti più evidenti della correttezza e del decoro. Il pettegolezzo ha cessato la risorsa dell’ozioso e del debosciato e si è trasformato in un’attività commerciale perseguita con solerzia e anche impudenza”. Scrivevano così Warren e Brandeis, nel 1890, sull’Harvard Law Review nel saggio che ha dato i natali al diritto alla privacy. E lo scrivevano reagendo a quello che oggi definiremmo gossip, particolarmente in voga sulla stampa dell’epoca per una sola e unica ragione: indurre il lettore a comprare il giornale, vendere più copie, battere il concorrente o, almeno, restare a galla.

Era così che fatti e momenti privati, finivano sulle prime pagine dei giornali e accendevano discussioni, dibattito pubblici e reazioni talvolta anche violente.

Oltre un secolo dopo non è cambiato nulla salvo la circostanza che alla “stampa” di Warren e Brandeis si è aggiunta la radio, la televisione e poi, più di recente – ma, comunque, ormai da oltre un ventennio – una congerie di soggetti straordinariamente eterogenei che, per semplicità, chiamiamo internet. E questo, naturalmente, ha determinato un’inarrestabile amplificazione di un fenomeno già odioso all’epoca, già umanamente insostenibile e, anzi, letteralmente disumano e contrario ai più elementari principi del vivere civile.

Ecco anche l’ultima tragedia della ristoratrice del lodigiano è, in buona misura, da imputare al travalicamento della linea di confine tra il privato e il pubblico, all’ossessiva ricerca della notizia a tutti i costi solo per assicurarsi una manciata di click da trasformare in denaro o in fama effimera nell’universo dei social network, dell’ostinazione con la quale si trasforma una sciocchezza qualsiasi della vita di una persona comune in un fatto di cronaca o, addirittura, di quella che si confonde per indagine giornalistica, spesso condotta persino da chi giornalista – o comunque professionista dell’informazione - non è.

Ma chi l’ha detto che la veridicità di un commento di un avventore di una pizzeria di provincia pubblicato su un servizio di recensioni destinato al massimo a orientare la scelta di qualche centinaio di persone ogni anno e la risposta della ristoratrice debbano diventare un fatto di cronaca nazionale, occupare le prime pagine di giornali e telegiornali, finire addirittura nel dibattito politico e accendere una interminabile querelle pubblica, nella quale, inesorabilmente, persone diversamente educate si ingarellano nel fare sfoggio di tesi contrapposte quasi si stesse discutendo di uno scandalo internazionale e nella ricerca di dettagli, particolari – spesso insignificanti – quasi si trattasse di prove e indizi dell’alto tradimento di un capo di Stato? E quel commento maledetto all’origine di questa ultima tragedia è un fatto tra i più rilevanti nello zibaldone dell’irrilevanza che, sempre più spesso, indistintamente, media professionali e personaggi conquistatisi per ragioni diverse qualche frammento di effimera visibilità nell’universo social, propongono come informazione, cronaca e giornalismo.

Esattamente come accadeva oltre un secolo fa nell’America di Warren e Brandeis, esattamente per le stesse ragioni.

Poi, certo, il tribunale dei social è feroce, le sue sentenze sono inappellabili, la gogna mediatica è incivile e inarrestabile, le persone non si rendono conto che le parole, spesso, fanno più male delle botte, gli algoritmi dei social, talvolta, danno più voce ai messaggi d’odio e di rabbia che a quelli di pace e serenità.

Ma se imparassimo a resistere alla tentazione di mettere nella piazza digitale ciò che non ha alcun bisogno di finirci, se rispettassimo la linea di confine tra la dimensione pubblica, privata e segreta della vita delle persone della quale scriveva Gabriel Garcia Marquez, se iniziassimo a considerare il diritto alla privacy, anziché come un fastidioso capriccio o un adempimento burocratico come un irrinunciabile diritto-strumento, garante del vivere civile, della libertà individuale e di una pluralità di altri diritti che danno forma alla dignità delle persone, la quantità di certe evitabili tragedie figlie, direttamente o indirettamente, della cattiva informazione nell’accezione più ampia del termine, diminuirebbe.

Ma non c’è nessuno che possa riuscire nell’impresa da solo e, forse, non servono neppure nuove regole.

Serve uno sforzo culturale collettivo.

I media mainstream e professionali, innanzitutto, non dovrebbero più dare ospitalità a notizie che non sono notizie, a prescindere dal numero di click che appaiono capaci di generare, gli algoritmi delle piattaforme social dovrebbero sforzarsi di confinare all’irrilevanza discussioni che minacciano di trasformarsi in gogne mediatiche prima che lo diventino almeno quando basate su fatti privi di qualsiasi interesse pubblico e, tutti, dovremmo smetterla di dar voce e regalare like a chi fa dell’invasione dell’altrui privacy, non uno strumento di denuncia pubblica di fatti di interesse pubblico e socialmente rilevanti ma, più semplicemente, un’occasione per conquistare follower mostrando la coda del pavone.