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Neo-colonialismo tecnologico, il golden power non basta

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Neo-colonialismo tecnologico, il golden power non basta
Intervento di Guido Scorza, Componente del Garante per la protezione dei dati personali
(MilanoFinanza, 26 novembre 2021)

Il dibattito infiamma la politica e i mercati finanziari ormai da giorni ovvero da quando Kkr ha lanciato la sua offerta pubblica di acquisto delle azioni di Tim. L'idea che sull'infrastruttura nazionale di telecomunicazione per antonomasia possa essere issata una bandiera a stella e strisce ha elettrizzato gli animi anche dei commentatori più miti e sta facendo dire ai più che il presidente del Consiglio dei ministri dovrebbe esercitare il golden power che la legge gli attribuisce e bloccare in tutto o in parte l'operazione per scongiurare il rischio che il Paese si ritrovi con le proprie autostrade dell'informazione ostaggio di un Paese straniero proprio nel pieno del più grande processo di transizione digitale della storia e, dunque, proprio alla vigilia di una stagione nella quale sempre più interessi nazionali, pubblici e privati, sono destinati a circolarvi. Insomma, l'esercizio del golden power sarebbe, secondo i più, l'ultimo, necessario baluardo della sovranità digitale nazionale.

Sono tutte considerazioni difficilmente contestabili e largamente condivisibili per quanto, in effetti, non è da ieri che Tim ha smesso di essere, per davvero, un campione nazionale essendo, già oggi, tra l'altro, largamente nelle mani della francese Vivendi. C'è più di una ragione che, in effetti, suggerisce che se l'opa di Kkr avesse successo il Paese si ritroverebbe meno libero di quanto già non sia oggi. E, però, non ci si può dimenticare il contesto nel quale l'operazione si sta consumando. Specie negli interminabili mesi della pandemia, il nostro Paese si è scoperto in una condizione di sostanziale dipendenza digitale, in particolare proprio nei confronti degli USA e delle big thech battenti, appunto, bandiera stelle e strisce. Scuola e università sono, in qualche modo, rimaste aperte esclusivamente grazie ai servizi offerti, in misura preponderante, da Google e Microsoft. Lo smartworking è stato possibile solo grazie al ricorso a una serie (peraltro piuttosto limitata) di servizi di hosting, videoconferenze, messaggistica istantanea, mail e elaborazione condivisa di documenti offerti, con poche eccezioni, direttamente o indirettamente, dalla solita manciata di fornitori americani che dominano, non da ieri, i mercati digitali. L'e-commerce, letteralmente esploso nei giorni del lockdown, è largamente controllato da alcuni giganti stelle e strisce.

La dieta mediatica del nostro Paese (e la situazione non è molto diversa nel resto d'Europa) è, ormai, pressoché integralmente dettata da Google, Youtube, Facebook, Twitter, Netflix, Apple e Amazon, tutte unite da un unico filo rosso: avere i loro quartieri generali negli Usa. Sono loro che letteralmente plasmano le nostre menti, le nostre idee, le nostre opinioni e le nostre scelte politiche e di consumo con una forza straordinariamente superiore rispetto a quella dei media di ieri anche perché, a differenza di questi ultimi, ci conoscono, spesso, meglio di quanto ciascuno di noi conosce sé stesso grazie alla quantità industriale di dati personali che accumulano e processano secondo per secondo qualsiasi cosa noi si faccia. E per questa via sono in grado di proporci ciò che ci interessa di più ma anche di persuaderci che qualcosa ci interessi più di qualcos'altro facendo leva sulle nostre inclinazioni, le nostre ambizioni e le nostre debolezze. La nostra vita di relazione ormai è largamente mediata da una manciata di piattaforme di social network (Facebook, Instagram, TikTok, Snapchat e poche altre) che, ancora una volta, hanno in comune solo il fatto di essere, in un modo o in un altro tutte basate in California. I dati di buona parte della nostra amministrazione sono conservati e transitano, direttamente o indirettamente, su infrastrutture che appartengono o che, almeno, utilizzano servizi forniti dai soliti noti del club delle big tech statunitensi. E, per finire, tre quarti delle comunicazioni tra i rappresentanti di istituzioni, autorità, amministrazioni pubbliche centrali e locali viaggiano su posta elettronica e app di messaggistica controllate da Microsoft, Google e Whatsapp.

La sensazione, insomma, è che, pur essendo giusto farlo, riscoprirsi preoccupati che Tim finisca nelle mani americane in un contesto di questo genere sia un po' come concentrarsi a guardare un dito perdendo di vista la luna. Oggettivamente, esercitare il golden power su Tim forse eviterebbe un peggioramento di una situazione già grave ma certamente non risolverebbe il problema. Ma cosa si può fare per scongiurare il rischio che l'accelerazione del processo di trasformazione digitale finisca con il consegnare sempre di più il Paese in una condizione di sostanziale neo-colonialismo tecnologico? Forse, l'unica e ultima reale speranza, è quella di promuovere, auspicabilmente in maniera coordinata con l'Unione Europea, un processo di codificazione internazionale che valga, nel minor tempo possibile, a far sì che la più parte del mondo condivida un set minimo di principi etici e giuridici e di obiettivi idonei a che chicchessia nella stanza dei bottoni dei grandi fornitori di servizi digitali globali non possa ne comprimere ne compromettere alcune libertà fondamentali delle persone, delle imprese e dei governi. La società è liquida, diffusa e globale e in assenza di una nuova lex mercatoria almeno per l'ecosistema digitale, la difesa delle bandiere issate sui quartieri generali delle imprese e quella dei confini geografici rischia di essere vana e anacronistica.