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Parole che uccidono via social - Intervento di Guido Scorza

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Parole che uccidono via social
Intervento di Guido Scorza, componente del Garante per la protezione dei dati personali
(HuffPost, 14 ottobre 2023)

Un ragazzo di 23 anni – tanti ne aveva Vincent – che scegli di togliersi la vita in diretta, davanti al suo smartphone acceso, dopo accuse sul web. Vale la pena scriverne, parlarne, discutere, soprattutto, interrogarmi su cosa si può – e anzi si deve – fare perché non ci siano altre giovanissime vite bruscamente spezzate allo stesso modo

Vincent all’anagrafe, Inquisitor ghost su TikTok si è ucciso in diretta sulla popolare piattaforma social verosimilmente – perché, naturalmente, tocca alla magistratura accertare oltre ogni ragionevole dubbio l’accaduto – perché non ha retto alle accuse di essere un pedofilo che lo avevano letteralmente travolto online, accuse false messe in giro ad arte – o almeno questa è l’ipotesi al vaglio degli inquirenti – per screditarlo e impedirgli di prendere il volo come produttore di contenuti di successo, sottraendo contatti, interazioni, popolarità e, forse, anche soldi e successo a altri creatori di analoghi contenuti.

Non lo avessimo, purtroppo, già visto accadere sembrerebbe tutto assurdo.

Un ragazzo di 23 anni – tanti ne aveva Vincent – che scegli di togliersi la vita in diretta, davanti al suo smartphone acceso, in una sera come tante, a casa sua perché massacrato dalla violenza delle parole via social, violenza ispirata – se così stanno le cose – da paura che sottraesse a qualcuno un pugno di like e interazioni sui social.

Eppure è accaduto e tra tante cose che possono accadere, ce n’è una che non deve accadere: che questa storia ci scivoli addosso come un incidente inevitabile, un drammatico effetto collaterale indesiderato delle dinamiche della società digitale nella quale viviamo.

Vale, quindi, la pena scriverne, parlarne, discutere, soprattutto, interrogarmi su cosa si può – e anzi si deve – fare perché non ci siano altre giovanissime vite bruscamente spezzate allo stesso modo.

E, in questa prospettiva, una riflessione sembra più importante di tante altre: le parole possono far male quanto e più della violenza fisica ma gli utenti dei social, a cominciare dai più giovani, non lo sanno, non lo capiscono, non se ne rendono conto. “Non ho mai voluto che questo accadesse. Ciò che gli è capitato è completamente sbagliato”, ha scritto, proprio sui social, uno dei principali indiziati di aver messo in giro l’accusa infame che Vincent fosse un pedofilo.

E, probabilmente, dice la verità.

Si corre a condividere ogni genere di contenuto sui social, si aggrediscono digitalmente vittime inermi e innocenti, ci si trasforma letteralmente in carnefici senza rendersene conto. Accade oggi, sotto i nostri occhi, dietro le luci scintillanti di piattaforma che macinano milioni di dollari ogni ora anche grazie a contenuti violenti, violentissimi e disumani. Accade per una pluralità di ragioni, imputabili a una pluralità di soggetti diversi e non sarebbe né giusto, né intellettualmente onesto puntare l’indice solo contro alcuni, assolvendone altri. Siamo, innanzitutto, davanti a un fallimento educativo: ci siamo ritrovati e abbiamo messo in mano a ragazzini di ogni età strumenti straordinariamente potenti senza aver investito abbastanza – o, forse, almeno per anni, senza aver investito alcunché – nell’educazione al loro uso consapevole e sicuro, sottovalutando rischi che, purtroppo, oggi si palesano sempre più frequenti con tinte fosche e drammatiche.

Qui abbiamo sbagliato un po’ tutti, ciascuno nel suo ruolo di adulto, genitore, formatore, informatore, decisore pubblico. Ma accanto a questo fallimento educativo c’è un altro tema: siamo certi che le piattaforme social siano disegnate, progettate, sviluppate e gestite in maniera tale da anteporre il benessere degli utenti – a cominciare da quello dei più giovani naturalmente – al pur legittimo perseguimento del profitto?

Difficile, purtroppo, credo, dirtene certi. Difficile negare che certe piattaforme – perché generalizzare è sempre rischioso – rendano la condivisione di ogni genere di contenuto più facile, immediata, impulsiva di quanto sarebbe opportuno. Difficile negare che con l’intento di massimizzare la circolazione dei contenuti che, con una certa approssimazione, significa aumentare i propri profitti, comprimano, forse al di là del ragionevole, lo spazio di riflessione, ponderazione, prudenza che sarebbe opportuno vi fosse prima di condividere un contenuto tra milioni o miliardi di utenti, prima di dare del pedofilo a un ragazzino che non è.

Difficile negare che gli algoritmi di molte piattaforme social, spingano più lontano un certo genere di contenuti, dai toni più forti – non necessariamente violenti per carità -, più divisivi, più capaci di generare attenzione e interazioni e, siano un po’ pigri, invece, nel rendersi conto che una insostenibile tempesta di infamie si sta abbattendo sul profilo di un ragazzino che non può reggerne la forza d’urto. E qui, forse, serve correre ai ripari prima che sia ancora più tardi. Il punto non è che i gestori dei social macinino legittimamente profitti miliardari ma il punto è che sembra davvero indispensabile che nel farlo si facciano carico di considerare prioritario il benessere e la sicurezza degli utenti, a cominciare da quelli più piccoli, investendo – per davvero e non solo con azioni e campagne di techwashing – nel disegnare e progettare le loro piattaforme in maniera diversa da quanto hanno fatto sin qui.

I più piccoli, tanto per cominciare, vanno tenuti semplicemente lontani dall’utilizzo di strumenti che sono, evidentemente, troppo potenti per loro. E, poi, dovrebbe toccare – non esclusivamente ma innanzitutto – a chi macina profitti miliardari grazie al loro uso, educare gli utenti, a cominciare dai più giovani, a un uso consapevole e responsabile di certi strumenti, servizi e piattaforme. E peccato se farlo significa rinunciare a dei profitti, rendere più lenta perché più ponderata la condivisione di certi contenuti, invitare gli utenti a pensare due minuti di più prima di condividere un contenuto anziché spingerli a farlo appena sfiorando lo schermo di uno smartphone.

Ma, naturalmente, una volta che riuscissimo a imporre ai giganti dei social di considerare il benessere dell’umanità e quello dei bambini un vincolo insuperabile e non sacrificabile sull’altare dei loro pur legittimi profitti, non c’è da dubitare che, chi ha letteralmente cambiato il modo di vivere di miliardi di persone, potrebbe e saprebbe trovare le soluzioni tecnologiche per garantire che l’ambiente digitale sia più sicuro di quanto non sia oggi, almeno e soprattutto per i più giovani.